“Io sono stata un cigno, mi hanno portata da fuori, mi sono voluta accomodare a forza, e poi ho molestato, scalciato e fatto bagarre anche contro chi s’avvicinava con il suo tozzo di pane duro, la sua elemosina d’amore”.
“Io sono la donna spezzata e opaca, quella che si rifrange sulle superfici e la vedi sempre a metà”.

Non sono una che sa stare al passo con le uscite editoriali, che legge i libri giusti al momento giusto, che sa sempre quando bisognerebbe parlare di un libro e quando, ormai, lo hanno fatto tutti, per cui non ne vale più la pena. No, io ci arrivo quando ci arrivo, che vuol dire quando posso e come posso, che non sempre corrisponde a quando voglio e come voglio, ma van ben, si possono fare le cose anche per il solo gusto di farle, senza per forza cercare la prestazione e il risultato migliori. E fu così che sono arrivata a leggere solo pochi mesi fa “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito, romanzo vincitore della Cinquantanovesima edizione del Premio Campiello, e per fortuna che ci sono arrivata, oserei dire, perché mi è piaciuto davvero, ma davvero, tanto. Sto, dunque, per presentarti l’ennesimo episodio della serie “meglio tardi che mai”.
Quando si parla di madri e racconti in prima persona io non posso mancare e se, tra le altre cose, il racconto è accompagnato da un linguaggio mai scontato, ricercato e affilato al punto giusto, direi che siamo proprio dentro al mondo letterario che piace a me.
La madre di Gaia -la voce narrante disagiata e disturbante, feroce e fragile, belva e preda, che impariamo a conoscere anche nelle fragilità e nei lati bui- è una madre giudicante e autoritaria, ingombrante e soffocante, che non concede mai ma si aspetta sempre molto da chi le sta attorno, altrimenti diventi subito un peso, un ennesimo problema da risolvere e lei, di problemi a cui star dietro, ne ha fin troppi e non ha proprio nessuna voglia di preoccuparsi di esserci per i suoi figli nel modo in cui una madre dovrebbe esserci, stando e lasciando spazio, educando e accompagnando. Lei si limita a impartire ordini e farli rispettare, ma non ci sono sorrisi che scaldano il cuore, parole di conforto, dialoghi costruttivi: per tutto questo, in una vita così complessa e grama, non vi è certo tempo. Gaia cresce con questa madre qui in un contesto familiare di estrema precarietà, in cui tutti devono bastare a sé stessi e accettare l’ordine imposto senza attaccarlo né prevaricarlo. C’è poco (pochissimo) affetto nella vita di Gaia e nella sua famiglia sgangherata. Il padre spinge, inerme, la sua sedia a rotelle da una stanza all’altra della casa, è come se fosse lui stesso parte dell’arredo, non osa quasi mai lamentarsi né parlare, non può contribuire all’economia della famiglia e, per questo, starsene lì buono pare essere il minimo che possa fare; il fratello maggiore la difende attaccando chi la prevarica e insegnandole, da buon discepolo della madre, che per salvarsi dagli altri bisogna aggredire e calpestare anche dove non si dovrebbe, altrimenti nessuno ti ascolta mai davvero. Più che una famiglia sembrano delle persone che vivono sotto lo stesso tetto senza condividere nulla, senza costruire ricordi, senza cercarsi mai per davvero, facendosi bastare quel poco che c’è, non pensando a quello che non c’è, riadattandosi ogni volta che vi è bisogno di cambiare casa e pure quartiere, levare le tende quando la madre dice che è ora, senza fare domande, senza storcere il naso o provare a ribattere: lei dice, gli altri eseguono, cos’altro si dovrebbe fare? Proviamo una certa pena per loro, vorremmo che qualcuno insegnasse loro ad aiutarsi, vorremmo che le cose cambiassero e ci chiediamo dove sia il momento della loro rivalsa, quando è che pure loro si prendono la rivincita su una vita che pare voltar loro sempre le spalle. Il problema è che, a furia di aspettare qualche cosa che non accadrà mai, anche noi lettori finiamo per fantasticare, sognare il cambiamento e il lieto fine che tanto ci rasserena e ci fa stare bene, mentre costruiamo castelli di sabbia e l’acqua, si sa, ci mette davvero poco a radere tutto al suolo. Ed è così che questa storia ci spiazza pagina dopo pagina, ci porta sempre più lontani dalla riva, verso le acque scure e profonde dove si inabissano e si nascondono demoni, scheletri, tristezze, rancori e desideri repressi.
Ci muoviamo tra Roma e la provincia, la prima centro per eccellenza, la seconda limite e confine periferico, crocevia di immobilità. In entrambe Gaia cerca l’affermazione di sé, un posto per sé e i suoi disagi, per lei che sin da piccola ha imparato che il rispetto va guadagnato con la lotta, con gli artigli e con i denti, che è sempre distaccata perché mostrare debolezza ti rende un perdente, che non riesce ad agire in modo incisivo e prendere la sua vita per mano per uscire definitivamente dall’orbita della luce accecante del faro di sua madre. Gaia è un’antieroina, ecco cos’è: è brutale, fredda e per nulla empatica, sembra vittima ma è pure carnefice; ha sempre gli occhi bassi e pare portare, mesta e sommessa, il peso del mondo, in realtà, però, è furia e amazzone che non perdona e non accetta il torto, lo smacco, l’errore, perché la madre non le ha mai spiegato che, a volte, perdere è vincere e vincere è perdere. Non sa dove sia il limite tra lecito e illecito, tra equilibrio e vertigini e mentre la osserviamo crescere e le sue parole ci restituiscono il racconto del mondo e delle ingiustizie per chi, come lei, non ha nulla e pare non avere diritto a nulla, siamo sempre più a disagio mentre realizziamo che qualcosa sta per andare definitivamente storto, che Gaia sta per perdersi -fino a consumarsi e scomparire- tra le strade della provincia, preda delle sue amarezze e della sua rabbia, della sua incapacità di ribellione e di autodeterminazione. La sua è l’involuzione di una giovane donna che fatica a relazionarsi con gli altri e con sé stessa in modo costruttivo. Studia e ha buoni risultati, certo, conosce persone e prova ad essere come tutti gli altri, ma c’è sempre qualcosa che la porta lontana, che la trascina lì dove nessuno di noi vorrebbe mai stare. Gaia è, allo stesso tempo, disadattata e promettente, attenta e sfuggente, ferita e fiera; il suo apparente benessere si nutre delle sofferenze altrui, come se vedere che anche gli altri possono stare male sia un modo per sentirsi meno ammaccata. In nessuno dei libri studiati prima a scuola e poi all’università troverà la formula per scappare da una madre così tossica e ingiusta, dalla quale non si è emancipata, e da una famiglia che è un concentrato di problemi e solitudine. Non è certo così che si impara a misurarsi con la vita e i suoi cambiamenti, non è certo così che si cresce; e, infatti, Gaia non cresce e quando è il momento di scegliere per sé, di capire come sviluppare i suoi talenti, lei rimane inerme e immobile, sperando che la corrente travolga tutto ancora una volta, desiderosa di disperdersi in un mare che è fatto di niente, in cui galleggiare perché sua madre le fa da boa, lontana da tutto e tutti, in perenne conflitto col mondo, rinchiusa nel tipico atteggiamento di chi accusa gli altri del proprio male e cova rancori e odio. Non vi è serenità tra queste pagine, né gioia, né emozioni che non siano un mix di rabbia e rancore.
I pugni si mescolano alle lacrime, le lacrime al sangue, il linguaggio verbale lascia posto a quello fisico: l’acqua del lago non è mai dolce per chi guarda solo attraverso occhi deformati e deformanti, per chi vede una realtà opacizzata da paranoia e disagio, annebbiata da disturbi e da schemi negativi.
Gaia non si fida di nessuno, non si lega a nessuno, vive ogni cosa senza crederci fino in fondo, quasi come se fosse qualcosa che bisogna fare e basta; si allontana da chi le si avvicina, costruisce muri di diffidenza e chiude il mondo fuori dal suo guscio. Quando appare debole, sola e sconfitta, schiacciata da una madre costantemente in modalità guerriera, “caterpillar emotivo”, vorremmo aiutarla -perché mai come in questa storia c’è bisogno di aiuto-, consigliarle della sana psicoterapia per vederla liberarsi da tutti quei fili che la stringono e la imbavagliano; invece, arriva l’ultima pagina e tutto precipita, vediamo la psicosi, vediamo Gaia per quello che è, è sempre stata e sarà: sola, schiva, a tratti ingiusta, asociale e problematica, apatica e indifferente a qualsiasi stimolo, inerme e inetta, repressa e imprevedibile. Un essere umano in difficoltà, incapace di trovare un posto nella società della perfezione, lei che di perfetto non ha mai avuto nulla, che non sa nemmeno come si fa a vivere davvero per il proprio bene.
Un libro per riflettere sui rapporti e le dinamiche familiari, per non smettere di chiederci quanta relazione ci sia davvero tra il modo in cui veniamo cresciuti e quello che, poi, alla fine, diventiamo.