“Mourir, mon agneau tourmenté, sans avoir appris que la mort n’est qu’une porte que les initiés savent tenir grande ouverte?”.
“Elle m’a apprit que tout vit, tout a une âme, un souffle. Que tout doit être respecté. Que l’homme n’est pas un maître parcourant à cheval son royaume”.

A volte capita che un film, una canzone o un libro ci scorrano addosso lasciandoci pressoché indifferenti, esattamente come è stato per me con Moi, Tituba sorcière… noire de Salem, romanzo scritto da Maryse Condé -nata nel 1937 in Guadalupa- e pubblicato per la prima volta nel 1986 (in Italia è pubblicato da Giunti Editore con il titolo Io, Tituba strega nera di Salem).
Moi, Tituba sorciére… è la ricostruzione, affidata alla voce della stessa Tituba, del processo alle cosiddette “streghe di Salem” avvenuto nel 1692, che coinvolse centinaia di persone in un girone infernale fatto di dichiarazioni più o meno estorte, torture, condanne a morte, prigioni, processi e accuse seriali. Inutile dirti che molte delle condannate furono donne e che molte di queste donne erano nere. Invischiata in questo sistema corrotto dal puritanesimo e da una fede che pare essere diventata la giustificazione dietro cui nascondere crudeltà e abominio di ogni empatica fratellanza, si ritrova pure la nostra Tituba, figlia di una schiava nera giustiziata per aver osato ribellarsi alla brutalità di un uomo bianco che pensava di poterne fare il suo gioco, arrivata dalle Antille nella comunità di Salem assieme a suo marito per servire una famiglia di bianchi. Tituba porta con sé conoscenze mediche da curatrice oltre alla capacità di mettersi in contatto con l’aldilà e questo pare essere sufficiente per fare di lei una strega. Una strega nera. Improvvisamente tutti la tradiscono e la abbandonano alla sua triste sorte di condannata, di miserabile, di diabolica creatura che usa i suoi sedicenti poteri per ammaliare bambine e donne bianche, fragili creature che solo la fede e la prepotenza maschilista potranno salvare dalla malvagia tentazione. Molti sono i passaggi del libro intrisi di magia e sensualità, il rapporto di Tituba coi suoi cari e la sua terra d’origine è ancestrale e (ri)suona come un richiamo costante che la protegge e la tiene in piedi anche quando tutto appare distrutto e perduto irreversibilmente. Rivivono la schiavitù e l’oppressione del forte sul debole, che non è debole per definizione, lo è perché il forte lo ha deciso, per essere a sua volta forte e assicurarsi gloria eterna, perché domare e sopraffare il diverso è decisamente più semplice che provare ad ascoltare e capire.
Il libro, nel suo insieme, mi è parso uno di quei libri che si lasciano leggere senza, però, lasciare delle impronte nella nostra mente, il segno di un cambiamento, di un sussulto. A tratti ho trovato il personaggio di Tituba vagamente irritante, con i suoi languori da donna che non sa e non può resistere al fascino degli uomini, in balia del loro (e del suo) desiderio carnale. In certi passaggi la sua voce è naïve e incerta e, forse, pure più patetica del necessario: da un personaggio simile ci si aspetterebbe maggiore consapevolezza, una presa di posizione più strutturata, fermezza e indipendenza nelle intenzioni e nei sentimenti, turbamenti meno fini a sé stessi e più inclinazione al cambiamento. Potresti facilmente obbiettare che sono proprio le debolezze e i difetti a rendere umani i personaggi, ma qui credo che, obiettivamente, il loro profilo psicologico e introspettivo manchi proprio di forza propulsiva. La stessa Tituba, infatti, finisce per essere un personaggio ben confezionato ma senza troppo spessore personale e, a volte, poco spontaneo: personalmente, avrei preferito un personaggio meno “pulito” e più dinamico, meno scontato e più disposto a raccontare il male nella sua ferocia nuda e cruda, nella sua ingiustizia, nella sua ossessiva caccia al nemico.
Una delle critiche che sento di dover muovere a quest’opera è la mancanza di una messa a fuoco ben centrata del punto di vista degli oppressori, che penetri nelle loro teste e ce ne sveli il contenuto, senza incasellarli per forza in categorie determinate e chiuse, uomini violenti e rozzi e donne fragili e intimorite: molto probabilmente così era la realtà sociale dell’epoca e Condé si è volutamente concentrata sulla prospettiva della sua protagonista per farla emergere e attribuirle il giusto peso, ma sarebbe stato interessante vedere i personaggi muoversi tra le pagine con atteggiamenti meno stereotipati per dare all’intero assetto narrativo del romanzo un sapore diverso. I personaggi, invece, risultano appiattiti dentro ad un ruolo preconfezionato e l’evoluzione (o l’involuzione) di alcuni di loro la si può facilmente intuire parecchie pagine prima che accada davvero. Mi rendo conto che di fronte a tanto ingiusto accanimento e a immotivati soprusi possa sembrare un dettaglio banale, ma sono altrettanto convinta che un atto di scrittura sincero e completo provi -almeno- ad andare a fondo non solo nel bene, ma anche nel male e nel dolore, senza per forza diventare morboso, senza travisare il messaggio della storia, bensì raccontando i fatti da più prospettive senza mai banalizzarne lo spessore né il contesto storico e culturale. In alcuni passaggi, al contrario, appare fin troppo netta e manichea la distinzione tra buoni e cattivi, oppressi e oppressori, ribelli e difensori dell’ordine, ostinati e ciechi fedeli e uomini liberi da ogni catena idealista e filosofica, figli devoti della ribellione e della rivolta, affascinanti e immensi nel loro sconfinato coraggio, nel loro sex-appeal di leaders indiscussi, mentre Tituba fatica dalla prima all’ultima pagina ad essere pienamente padrona di sé stessa. Potrebbe essere un personaggio dal forte carisma femminista, ma non riesce a realizzarsi mai se non dietro le spalle (forti e possenti, possibilmente) di un qualche uomo e del suo fascino. Anche Tituba, dunque, veste sempre lo stesso volto: nonostante le brutalità, gli abbandoni, i tradimenti, mantiene intatta la sua ingenuità così come la sua forza, non cambia mai, non cede mai, non fa né un passo indietro né un passo in avanti e la storia stessa pare non avere nessun effetto su di lei, che vuole solo tornare dove è partita, lasciarsi alle spalle quel luogo nefasto e cupo dove è approdata o dove si è fatta trascinare, incapace di decidere per sé, figlia -suo malgrado- di una società incentrata attorno al benessere e al piacere dell’uomo, bianco o nero che sia. Inciampa sempre negli stessi errori, smania sempre per uomini sbagliati e vive la sessualità con un trasporto da romanzo d’appendice che, nel 2022, io non me la sento proprio più di affrontare.
Non avevo aspettative di nessun tipo, forse partivo già un pelino prevenuta, ma non ho trovato nulla che mi abbia fatta ricredere. La struttura della storia è assai lineare e il linguaggio assai standardizzato, per cui puoi buttarti nella versione in lingua originale anche se non hai un francese più che eccellente: non ci sono grossi colpi di scena e la prevedibilità di alcuni passaggi facilita la comprensione della storia nel suo insieme. Una buona lettura se vuoi leggere in lingua francese ma vuoi stare alla larga dai manierismi e dai temi sofferti e densi tipici dei grandi nomi della letteratura di Francia.