“Las mujeres de los padres que conozco contribuyen a que se los vea como hombres excepcionales lanzando frases como: “Es muy colaborador”; “él ayuda”; “él es tan buen padre”. Nunca un:”él hace lo que tiene que hacer”. Una buena madre jamás será vista como una mujer excepcional, será solo una madre””.

“Yo no quiero escritoras más visibles, quiero escritoras y escritores más osados, más salvajes, más periféricos, porque son esos los que me han dado siempre la perspectiva que más me interesa”.

Con “Primera persona” di Margarita García Robayo torniamo in Sud America, nel cuore pulsante di una nuova letteratura che indaga il concetto stesso di “identità” da più punti di vista. Robayo lo fa partendo dal suo essere donna, in un testo senza una trama reale, che avanza per capitoli, analizzando temi diversi ma tutti generati da un unico epicentro, quello dell’identità femminile e le sue sfaccettature.

Robayo parla di sé stessa, della donna che è, della donna che è diventata e di quella che vorrebbe diventare -senza dimenticare le donne che hanno popolato la sua vita- e ci offre un caleidoscopio di modi diversi di vivere il femminile e essere donna; allo stesso tempo, si chiede se la scrittura, unita alla sua stessa esperienza di vita, riesca a contenerle tutte queste donne, a farle respirare e parlare dalla bocca di un’immagine che ha uno e tanti volti. La scrittrice colombiana si muove tra i suoi ricordi con questa dichiarata intenzione di analisi e riscrittura del femminile, senza paura di svelarsi troppo o di provare rabbia, dolore e/o nostalgia, semplicemente lasciando che sia la sua stessa intimità ad esprimersi attraverso una scrittura costantemente in guardia e vigile, nella quale ogni parola apre un mondo fatto di relazioni, connessioni, sentimenti e rimandi. Il mondo che si rivela è popolato da donne diverse, con tratti e caratteristiche simili e lontani tra loro, che abitano e si spostano -loro malgrado- in ambienti dominati da una mentalità machista e patriarcale, che la stessa Robayo riconosce non certo per accettarla, piuttosto per scardinarla, abbatterla e sportarsi lontano dal suo opprimente dominio e dal suo logorante controllo. C’è molto da mettere in discussione, molto da rifare per considerarci libere da giudizi, limiti e barriere ed è proprio qui che la scrittura di Robayo si insinua, per liberarsi e liberarci dall’occhio critico dell’uomo e ridarci un ruolo di protagoniste: non più solo figlie, non più solo mamme, non più solo mogli, non più solo fragili, bensì protagoniste delle nostre scelte, dei nostri sbagli, padrone dei nostri impulsi e delle nostre ragioni. Mi pare che Robayo voglia, prima di ogni altra cosa, rivelare ed esplicitare il non detto, dando spazio a tutto quello che non rientra nella canonicità e che in lei si muove ribelle e viscerale. La sua è una femminilità consapevole e cosciente, che fugge dal preimpostato e non ci sta e non vuole essere quello che gli altri (gli uomini principalmente) hanno scelto per lei sulla scia del “si è sempre fatto così”. Può risultare scomoda, questa sua voce, ma è forte e solida nella sua ricerca di vie altre a lei più consone. Robayo si legge dentro e si mette a nudo, invitandoci, pur senza chiedercelo mai espressamente, bensì affidandosi alla forza che muovono le sue parole, a fare altrettanto, ad alzare la testa per guardare il mondo e pure noi stesse esclusivamente dalla nostra prospettiva senza cercare approvazioni in sguardi e desideri altrui.

Sono grata a scrittrici come lei, perché ogni pagina è una seduta di psicoterapia, perché rimettono in circolo l’aria, perché mi fanno sentire parte di un cambiamento che non solo è possibile, ma che, senza fare per forza troppo rumore, un po’ in sordina, sta iniziando ad alzare la polvere e a togliersi di dosso il peso del mutismo e dell’immobilismo.

I punti di partenza per la sua scrittura sono vari e slegati tra loro, in comune hanno solo il legame con uno o più momenti della sua formazione sia personale che professionale, in bilico tra necessità di riconoscimento e disperato bisogno di espressione libera e scarmigliata. Il libro si apre con una sezione dedicata al mare inteso come simbolo di andata e ritorno, catalizzatore e magnete per la vita dell’autrice, nata e cresciuta sulla costa colombiana, col Mar del Caribe a condizionare il suo stesso concetto di limite ed estensione e, perché no, il fluire degli eventi, l’andirivieni del suo umore e dei suoi stessi pensieri. Robayo sente di dovere e volere andar via da quei confini che paiono ingabbiarla, sin da piccola, in un ruolo femminile scontato e precostituito, socialmente marginale, privo di slanci e riposizionamenti, per scappare da tutto un mondo in cui stare al proprio posto significa innanzitutto sapere e accettare che i margini di manovra ed esplorazione sono finiti e che qui si può stare ma lì assolutamente no. Prosegue, poi, dedicando altre sezioni del libro -che è, in realtà, una raccolta di articoli apparsi in varie riviste in uno spazio temporale fatto di anni- alla figura del padre, all’instabilità mentale della madre, all’amore e agli amori, alla maternità e all’allattamento, alle amicizie dell’adolescenza e al lavoro di scrittrice: tutte proiezioni di sé, tutte donne che sono state e che sono in lei, facce di una sola identità che, per definizione, non può e non deve essere univoca, non può e non deve essere bidimensionale. Ogni tappa dell’opera ci restituisce la cifra del suo essere donna: il ciclo, il latte materno, il corpo, il rapporto con la famiglia, tutto diventa un rimando costante e cifrato al suo femminile, che è lì, che c’è e la rappresenta e la condiziona. E non potrebbe (e non dovrebbe) essere altrimenti. L’autrice scruta la persona, scopre ferite, mette a nudo sentimenti più o meno scomodi, mentre le relazioni familiari si stravolgono e si raccontano da una prospettiva diversa e capovolta.

C’è qualcosa nella sua scrittura che è richiamo alla sofferenza, al pensiero e alla riflessione: il corpo stesso, in tutta la sua fisicità, si fa veicolo di emozioni, di piacere e dolore (leggendo certi passaggi mi è ritornata alla mente la scrittura di Diamela Eltit e i suoi accostamenti mutevoli e anti-patriarcali, il concetto di “io” in relazione con sé e l’altro da sé visto da prospettive capovolte e distorte). La scrittura di Robayo, fisica ed intima, sanguina, così come il suo corpo, e si muove dall’interno fino ad acquisire un valore comunicativo inestimabile che la fa tornare ad essere istinto primordiale, ragionamento illogico; il processo portato a termine è, in definitiva, la ricerca dell’origine identitaria e della formazione dell’“io” posto in relazione costante e ambivalente con la società e le proprie estensioni e proiezioni. Di realismo c’è molto, di magico nulla, quella di Robayo è una scrittura sull’intimità dall’intimità, sull’identità femminile e sulla necessità di costruirla partendo da nuove categorie, non contrapposte al maschile, ma semplicemente altre. Pare poco, pare banale, ma non lo è.

Il libro è pubblicato in lingua originale da Editorial Tránsito; se conosci lo spagnolo e vorresti leggere qualcosa di diverso dai soliti nomi noti, non dovresti assolutamente perderti questo libro: assolutamente consigliato.

Ci sentiamo presto… e non dimenticare di condividere!