“E quella mattina ventosa di Santo Stefano al belvedere, con il mare buio e i traghetti che arrancavano verso l’Elba, Beatrice e io avevamo quattordici anni eppure lo sapevamo già, che il futuro è un tempo che toglie e non aggiunge”.

“Per leggere occorrono necessità e disperazione: è una cosa che si fa in galera, in solitudine, in vecchiaia, nell’emarginazione; quando né la tv né Internet riescono a distrarti dal fatto che nella vita si perde, e si perde in tutto; e chi conosci ti sembra felice e tu ti consumi d’invidia; quando l’unica soluzione è farla finita e diventare un altro”.

“Un’amicizia” di Silvia Avallone, pubblicato da Rizzoli, è arrivato in casa mia a dicembre 2020, ma sono riuscita a leggerlo soltanto nell’autunno del 2021.

Devo, innanzitutto, svelarti che ho l’età di Elisa e Beatrice, le due protagoniste del romanzo, e che anche io sono stata adolescente nei primi anni 2000 (correva il 2005 quando ho conseguito la maturità), in un’epoca in cui analogico e digitale significavano due cose ben distinte e la rivoluzione tecnologica e sociale che avrebbe stravolto e sconquassato le nostre abitudini quotidiane iniziava timidamente a muovere i primi, incerti, passi, ma eravamo ancora lontanissimi dall’immaginare qualcosa di simile al fenomeno Facebook. É, pertanto, assai probabile che tutto questo background condiviso abbia contribuito a creare un certo legame con le due protagoniste e il contesto storico e sociale in cui crescono dato che, praticamente, è stato anche il mio: niente social networks, la scuola (e non Internet) come piazza sociale per eccellenza, nessuna dittatura dell’apparenza e della perfezione assoluta -anche se, ripensandoci, forse sì, ma con molta meno esposizione ed esibizione-, della vita che, per parafrasare la stessa Avallone, sembra contare qualcosa solo se raccontata, esposta e -aggiungo io- inquadrata dalla giusta prospettiva, le telefonate dal fisso di casa, i primi PC e i primi cellulari che chiamavano e mandavano SMS, facevano e ricevevano squilli, poi qualche foto sgranata e nulla più. Aggiungo che anche io, come Elisa e Beatrice, sono cresciuta in provincia e mi sono abituata a guardare il centro delle cose da molto lontano e a vedere i cambiamenti succedere e arrivare prima altrove che a casa mia.

Siamo, noi trentenni, una generazione ponte, che si è formata in un mondo e si è ritrovata adulta in uno completamente stravolto da un mutamento rapido e definitivo: i più bravi, astuti e lungimiranti hanno capito che tutto non sarebbe più stato come prima e hanno scelto di camminare metri avanti agli altri per arrivare prima a toccare il nuovo, mentre i più timorosi si sono limitati a guardare quello che accadeva rimanendo alla giusta distanza di sicurezza e altri, semplicemente, non hanno capito o hanno capito troppo tardi. Va da sé che per i primi è stato subito chiaro cosa sarebbero diventati e dove tutta questa innovazione comunicativa avrebbe potuto condurli; per tutti gli altri, al contrario, è stato più complesso diradare la nebbia e capirci qualcosa, leggere il futuro e saperlo interpretare, pur senza smettere di credere ancora in un mondo destinato a diventare obsoleto in poco, pochissimo tempo.

Ma veniamo alla storia di “Un’amicizia”.

Elisa e Beatrice sono due ragazze di quattordici anni; sono sole, diverse dal resto del gruppo, non omologate e, dunque, non accettate, seppure per motivi diversi. Beatrice è bella e ricca, distante e inarrivabile, invidiata e odiata, messa alla gogna proprio perché appariscente, diretta e cinica, modesta mai, sicura e intraprendente, arrivista ancora prima di sapere cosa significhi esserlo; Elisa –l’”io” narrante, la prospettiva soggettiva da cui ci vengono raccontate le vicende di questa storia-, invece, è quella venuta da lontano, che si veste in modo strano, a disagio sempre, sicura di sé mai, incazzata con sé stessa e con il mondo, lettrice accanita e divoratrice di letteratura (che sarà un’ancora di salvezza, quella cosa che c’è sempre e non delude mai, e avrà un ruolo per nulla secondario, soprattutto nella struttura della vita di Elisa), sgraziata e intelligente, acuta nei pensieri e profonda nelle riflessioni. Come spesso accade, i due opposti si attraggono e finisce che Beatrice e Elisa diventano l’una il rifugio dell’altra, due naufraghe nel mare dell’adolescenza aggrappate alla stessa zattera, almeno fino a che il destino, la vita di giovani donne alla conquista del futuro e il contesto diverso da quello della cittadina in cui si conoscono non le faranno allontanare irrimediabilmente: Beatrice diventerà quello che ha sempre voluto essere, una diva dei nostri tempi, un’influencer nota e arcinota, votata all’apparire ancor prima che all’essere, schiava dell’apparenza che congela sotto strati di artificiale e/o naturale bellezza tutto ciò che si agita dentro e che potrebbe svelare umane insicurezze, umane sofferenze, umane crepe nell’aliena perfezione, mentre Elisa dovrà abbandonare -o mettere momentaneamente da parte- il suo sogno di adolescente e accettare, tra alti e bassi e qualche salto mortale, che la vita l’abbia portata su strade mai nemmeno immaginate per se stessa.

Elisa, dicevo prima, è la voce narrante, una trentenne che sente che è arrivato il momento di fare i conti con sé stessa, con quello che è successo tra lei e Beatrice molti anni prima e la conseguente catena di eventi che ne è scaturita; fa i conti con l’adolescente impacciata e insicura che è stata, con Beatrice e il suo temperamento vulcanico e egoriferito, con gli strascichi di un’amicizia disfunzionale e impari, con sua madre e la loro solitudine, col padre che diventa un nuovo (e inatteso) punto di riferimento, con l’amore, insomma, con la vita tutta. Quella di Elisa è una voce fuori dal coro: se tutti vanno nella direzione del mostrarsi come atto volontariamente fine a sé stesso e dell’immagine perfetta che diventa anche prodotto perfetto, lei insegue i suoi ideali e rimane fedele al suo mondo di parole, libri e letteratura: con gli strumenti che aveva a disposizione ha saputo forgiarsi un’armatura perfetta per lei, perché, in fondo, per dare importanza a chi siamo e a cosa abbiamo costruito non è davvero necessario che tutti vedano i nostri successi, che tutti ce li invidino, che ogni nostra azione faccia girare l’economia e alimenti il Capitalismo e il suo insaziabile appetito. Siamo noi stessi gli unici a cui rendere conto di quello che facciamo, di quello che siamo ancor prima di quello che non siamo.

Alla fine del libro il cerchio si chiude, anche se il finale rimane comunque aperto: il presente ha finalmente chiuso i conti col passato, ma non sappiamo cosa succederà nel futuro e mi pare pure giusto così.

Silvia Avallone racconta non solo la storia di due adolescenti diventate adulte, di due amiche che amiche non sono più, ma anche l’incertezza del futuro e del presente stesso; narra la vita, con le banalità, i colpi bassi e le sorprese inaspettate, soffermandosi su tutto quello che accade mentre noi siamo troppo impegnati a crescere prima e a invecchiare poi, facendoci riflettere ancora una volta sul fatto che  siamo soprattutto il nostro presente e che dovremmo smetterla di sporgerci troppo in avanti e di guardare continuamente indietro, pur consapevoli che questo non significa nascondere il passato dietro una fitta nebbia, bensì accettarlo per quello che è stato, farci la pace. C’è, inoltre, lungo tutto il testo, molta fiducia nella letteratura e nella parola intese anche come strumenti di salvezza e non solo di obbligata formazione, interpretate come colonne portanti della vita stessa: Elisa ci vive praticamente dentro, si veste e si copre di parole lette e scritte tutte le volte che può e userà proprio la scrittura per riappropriarsi della propria vita e smettere di piegare la testa e giocare alla piccola fiammiferaia ferita.

Silvia Avallone con la sua storia ci ricorda che tutte ci siamo trovate a giocare la parte dell’amica carogna e quella dell’amica che, zitta, accetta e subisce pur di non perdere un legame da cui si credeva dipendente, che tutte abbiamo perso amicizie che sembravano vitali e ne abbiamo vissute di distorte e che tutte, più o meno rocambolescamente, abbiamo girato pagina e siamo diventate grandi. Non c’è, dunque, niente di strano e impossibile nella realtà di questo romanzo: Beatrice e Elisa sono tutte noi, che ci perdiamo tra le pieghe della vita, a volte per ritrovarci, altre per non rivederci più. Credo, però, mentre ascolto One Hot Minute dei RHCP (sono in fase revival) e scrivo questa recensione, che la sola cosa importante davvero sia non perdere di vista se stesse, conoscersi per accettarsie mi pare sia questo che, alla fine, Elisa impara a fare, ad essere, quindi, dipendente solo da stessa e ad accettare che tutto sia destinato a cambiare, persone comprese, e che la vita è un insieme di tante, piccole, tessere che non formano, per forza, un puzzle perfetto.

Ci sentiamo presto… e non dimenticare di condividere!