“Il me semble maintenant que j’écris sur ma mère pour, à mon tour, la mettre au monde”.
“Je n’entendrai plus sa voix. C’est elle, et ses paroles, ses mains, ses gestes, sa manière de rire et de marcher, qui unissaient la femme que je suis à l’enfant que j’ai été. J’ai perdu le dernier lien avec le monde dont je suis issue”.

“Une femme” (in italiano “Una donna”, la casa editrice è L’orma Editore) è il quarto libro di Annie Ernaux che capita fra le mie mani. Con il suo -inconfondibile- stile scarno e tagliente, emotivamente telegrafico, eppure, allo stesso tempo, così capace di colpirci nel profondo e sconquassare interi universi emotivi, Annie Ernaux racconta sua madre, la donna del titolo, e la sua storia. Annie Ernaux traccia, dunque, un ritratto della madre, morta nel 1986, e della sua vita, regalandoci l’immagine di una donna dura, pratica e determinata, che non cede e non si dà per vinta, che mostra e dimostra forza di volontà e fermezza, curiosità d’animo e di spirito, necessità di fare per sentirsi, vedersi esistere ed essere. E mentre porta avanti una vera e propria biografia della madre, tesse anche il racconto del suo vissuto familiare di figlia e analizza, con un linguaggio asciutto, il rapporto figlia-madre, descrivendolo nel suo trasformarsi e diventare anche un rapporto donna-donna, fatto di nuovi equilibri e baricentri che si spostano.
La madre di Annie diventa, a causa della malattia, una donna fragile e confusa, il contrario di ciò che è stata nel corso della sua vita; la malattia la sfibra, ne distrugge i ricordi, l’animo e l’integrità, e la restituisce al mondo indebolita e incerta, lei che incerta e insicura non era stata mai. Annie analizza presenza e assenza, prima e dopo, e ricostruisce l’impatto di un lutto così indelicato sulla sua emotività, sulla sua stabilità di donna adulta, figlia diventata a sua volta donna e madre. Non vi è, nel ritratto della madre e nel racconto stesso dei giorni dopo la sua morte, tenerezza incondizionata e gratuita, né parole umide di pianto rivolte al ricordo della madre, né strabordante e primitiva emotività (del resto, se tutto questo fosse presente, non staremmo parlando di un libro di Ernaux): Annie controlla il suo mondo emotivo, pesa le parole e taglia la carta mentre sfoga tra le pagine, con pacata fermezza, la rabbia per l’ingiusta perdita, il senso di vuoto e smarrimento, il bisogno di ricostruire il vuoto stesso per poterlo quantomeno accettare. La scrittura, nelle pagine di “Une femme”, diventa cifra della rielaborazione dell’assenza di qualcuno che dovrebbe sempre e solo esserci e che, invece, obbedendo alle regole della natura biologica, se ne va senza che noi possiamo fare qualcosa (qualsiasi cosa) per trattenere la custode per eccellenza della nostra infanzia. Le parole del libro ridanno spessore umano alla voce ormai lontana della madre di Annie e a quella di tutte quelle madri che non ci sono più, perché Ernaux lo sa che, per salvare sua madre dall’oblio, può (e deve) farla diventare storia, fissarne i tratti sulla pagina, accettarne la mancanza, analizzandola non dall’interno ma dall’esterno, vedendola come la persona che era, con tutti i suoi chiaro-scuri, prima ancora che come sua madre. Nessuno è indistruttibile, nessuno è qui per esserci per sempre, ma attraverso il potere della scrittura e della parola in quanto veicolo di significato, Annie Ernaux riconferisce dei contorni alla figura di sua madre, ormai diventata ombra. Non si tratta, dunque, solo di una biografia: questo libro è anche un omaggio alla memoria della madre, alla donna che fa da tramite tra Ernaux donna del presente e Ernaux figlia del passato, tra il mondo presente e il mondo delle origini che, così com’era, non esiste più.
Scrivere non è donare, per Annie Ernaux è qualcosa di più prossimo al donarsi. Nelle ultime pagine di questo breve libro veniamo colpiti da un’ondata di lieve malinconia e ci pare di vederla, Annie Ernaux, mentre scrive, mentre davanti ai suoi occhi sfilano le ombre del suo passato, sempre meno sfocate, sempre più definite, i volti e le mani che lo hanno popolato e costruito, addirittura, nel caso specifico di sua madre, indelebilmente definito. La vediamo scrivere l’ultima parola di quest’opera breve ma faticosa nella sua (ri)elaborazione, allontanarsi più leggera ma più consapevole dalla scrivania, mentre le pagine e la parola diventata forma scritta custodiscono non solo il ricordo, ma anche il vuoto del passato nel presente e come sempre si ha la sensazione che dentro ad ogni suo scritto vi sia un pezzo di lei, una parte della sua umana figura, ma anche della sua enorme capacità di analisi e osservazione del mondo visibile e di quello più nascosto e privato popolato da emozioni, suggestioni e sensazioni di varia natura. Ernaux scruta dentro di sé senza usare filtri, abbatte muri e oltrepassa frontiere in un atto creativo che è quanto di più sincero la scrittura possa offrirci.
Si fa notare, sin dalle prime pagine, la sua maestosa capacità di trasformare il personale in universale: raccontando la vita e la morte di sua madre, l’autrice trasforma il suo dolore e lo fa diventare nostro, senza dirci molto di questo dolore, senza per forza descriverlo e definirlo in un’immagine cristallina (d’altronde, il dolore di certo cristallino non è), ma con la solita necessità di raccontarsi per lasciar andare, di concedersi per diventare altro da sé, per far diventare la sua storia mille altre storie, ma senza farle perdere nemmeno un grammo della sua individualità. Quello che succede, succede a lei in prima persona, ma lì non si ferma e nella pagina incontra la vita e la storia di tutti noi lettori: Ernaux permette alla scrittura, alle parole nero su bianco, di elaborare e rielaborare il suo vissuto per farne un’esperienza collettiva riconoscibile per molti. È impossibile non riconoscersi nelle parole di Annie, nella paura di perdere la madre e di smarrire, assieme a lei, ogni legame con le proprie radici, nella consapevolezza che la scomparsa di una madre equivale a convivere con una sedia vuota, avvolta nelle tenebre, che nessuno (forse solo noi stessi) potrà mai riempire nuovamente.
Sto leggendo questo libro con un gruppo di corsiste di francese livello B1/B2, le quali riescono a comprendere benissimo quello che leggono: può essere che qualche parola sfugga loro, ma riescono comunque sempre ad afferrarne il senso generale. Per cui, se hai una conoscenza della lingua francese abbastanza strutturata, buttati pure sulla versione originale.