“[…] nunca dejamos de aferrarnos a la vida puesto que somos vida. También se podría decir: somos teatro, somos música. De igual manera, pocos son los escritores que renuncian. Jugamos a creernos inmortales. Nos equivocamos en el juicio de nuestras propias obras y en el juicio siempre impreciso de las obras de los demás. Nos vemos en el Nobel, dicen los escritores, como quien dice: nos vemos en el infierno”.
“Nadie se suicida en una guerra, […].¿Por qué? Pues por comodidad, por dilatar el momento, porque el ser humano tiende a dejar en manos de otro su responsabilidad. La verdad es que durante una guerra es cuando más se suicida la gente […]”.

Mi ci è voluto del tempo per ultimare la lettura di “2666” di Roberto Bolaño, non perché non mi sia piaciuto, bensì perché è parecchio lungo (supera le 1000 pagine) e io ho poco tempo per leggere con regolarità (con buona pace di quelli che riescono a leggere anche più di un libro contemporaneamente). Ora, però, temo che mi ci vorrà altrettanto tempo per abituarmi alla sua assenza, perché quello che Bolaño mette magistralmente in movimento è un vero e proprio universo letterario, un mondo in cui il lettore entra passandoci attraverso e dal quale esce con addosso la sensazione di aver vissuto un’esperienza letteraria che scorre dentro e fuori della sua stessa pelle: “2666” è un’opera di letteratura sulla letteratura. E pensare che non ero nemmeno così convinta di iniziarlo, questo romanzo; di Bolaño, infatti, avevo letto solo un racconto per un esame universitario, ma i racconti non mi entusiasmano mai e mi era rimasta l’idea che Bolaño non facesse per me. Invece, mi sono ritrovata a divorare letteralmente alcune parti di questo bellissimo romanzo: era davvero da tanto tempo che non mi rimaneva incollata addosso la storia di un libro così tanto da non vedere l’ora di poter continuare la lettura.
Non è semplice raccontare un’opera così perfetta, voluminosa, densa, piena e complessa, ma proverò comunque a non cadere nel banale.
Prima di tutto, credo sia importante ricordare che Roberto Bolaño è uno di quegli autori sudamericani che popolano la letteratura del post-boom letterario (quella del dopo Gabo, del dopo Vargas Llosa e del dopo Cortázar, per intenderci), portando avanti un vero e proprio processo di decostruzione del panorama narrativo di Macondo, ormai diventato modello assoluto e facilmente riconoscibile di una letteratura “esotica” e altra, regalandoci opere profondamente connesse con l’idea di ricerca di una nuova identità sia collettiva che individuale e con la necessità, sempre più insistente, di conoscersi e farsi conoscere in quanto esseri umani ma anche in quanto sudamericani, dando al termine “sudamericano” tutta una nuova accezione, costantemente in movimento, che col folklore di Márquez non ha più nulla a che vedere.
“2666” è un romanzo diviso in cinque parti, ognuna delle quali è essenzialmente indipendente dalle altre, pur essendoci tratti distintivi ed elementi narrativi comuni. La parte centrale è dedicata alla serie di omicidi -potremmo anche azzardarci a parlare di “femminicidi”- che si verificano nella città messicana di Santa Teresa, “ciudad fronteriza”, dove arrivano tutte le strade e i personaggi che troviamo e ritroviamo nelle varie parti che compongono l’opera. A ritrovarsi in quest’anonima città di frontiera ci sono dei critici letterari, in viaggio sulle tracce dell’enigmatico e misterioso scrittore tedesco Benno Von Archimboldi, un docente universitario cileno esiliato in Spagna di nome Amalfitano, trasferitosi in Messico con la figlia dopo aver accettato un’offerta di lavoro, un giornalista americano (Fate) che passa la frontiera per fare la cronaca di un incontro di boxe (la sua parte è quella che mi ha convinta meno) e tutta una serie di personaggi, legati al mondo dell’investigazione, impegnati a dipanare la matassa degli omicidi seriali che sconvolgono la città fino ad arrivare alla quinta e ultima parte, nella quale conosciamo Lotte, sorella di Benno Von Archimboldi, che dalla Germania va in terra messicana per ritrovare il figlio dopo anni di assenza e silenzio. Ogni parte potrebbe essere un romanzo nel romanzo, anche se, allo stesso tempo, ogni parte è un frammento narrativo di una narrazione più grande e estesa, in cui i personaggi si intrecciano e si incontrano su vari piani e livelli -sia narrativi che strutturali-; capirai, dunque, che non è per nulla semplice parlare in modo netto della trama di “2666”, proprio perché una vera trama univoca e lineare non c’è, essendo essa il risultato di molteplici fili che si intrecciano rimanendo, nei casi più estremi, aggrovigliati. La parte più corposa è sicuramente quella dei delitti, elencati con dovizia di particolari in ordine cronologico e descritti con un linguaggio oggettivo e tecnico. Tema centrale di questa parte (e, di conseguenza, tema più o meno filtrato anche nelle altre parti) è la violenza o, meglio ancora, la manifestazione della violenza intesa come Male assoluto, perpetrata e reiterata in contesti e luoghi e situazioni assai diverse fra loro. Non c’è, apparentemente, modo di porre fine a questa serie di atti violenti, resa quasi assurda dal modo in cui Bolaño ce la racconta e ancor più dall’incapacità delle forze dell’ordine messicane di bloccarla e stanare il colpevole -o i colpevoli-; vengono in più casi seguite delle piste, ma nessun poliziotto sembra sufficientemente affidabile e zelante e l’immagine che ci viene restituita è quella di un corpo di polizia sgangherato, disorganizzato e poco preparato, svogliato e superficiale, talvolta meschino, talvolta inerme e disarmato. Gli omicidi si susseguono e omicidio dopo omicidio, caso chiuso dopo caso chiuso, anche noi ci abituiamo a questa overdose di violenza e nemmeno ci stupiamo quando, finita la parte, nessuno ha veramente capito chi, cosa e perché. Mancano basi, mancano fondamenta, mancano esperienza e volontà, ma non manca certo la capacità di Bolaño di dar vita ad ogni singolo aspetto della sua storia che è una e tante storie, che è realtà e finzione, coesione e frammento, una voce unica capace di diventare corale e di disperdersi per poi ritrovarsi. Bolaño è, come dicevo, un mondo complesso e stratificato, dove molto si incrocia, dove nulla, nemmeno la letteratura, rientra in un canone precostituito, perché è proprio dai canoni che questo filone letterario sudamericano, in cui Bolaño stesso si inserisce, fugge, senza volerne per forza ricrearne di nuovi. Non ci sono regole narrative né stilistiche, Bolaño procede senza guardarsi indietro, continuando a costruire strato narrativo su strato narrativo su strato narrativo. In un certo senso il personaggio di Archimboldi apre e chiude il cerchio, ma nulla di quello che dovrebbe succedere succede, e la storia prosegue, al di fuori della nostra volontà, ben al di là delle pagine stesse, e la cosa veramente disarmante e stupefacente, che rende questo libro un immenso capolavoro, è che si ha talmente poca voglia di uscire dal vortice di storie e non storie, personaggi che paiono tutti secondari, trame che non decollano mai e che si costruiscono pure su molto di non detto, che ad un certo punto a noi lettori non interessa nemmeno più sapere come va a finire –o se va a finire-: ci basta poter proseguire. L’impressione che si ha è che tutto quello che l’autore ci racconta sia una sorta di anticamera della storia in sé, un’introduzione ad una storia che deve ancora cominciare, ma che in questo caso non decollerà veramente mai. Eppure stiamo lì, incollati alle pagine, perché il livello toccato da Bolaño è davvero molto alto e dare un’interpretazione univoca a questo suo meraviglioso universo è un vero e proprio azzardo, perché niente in quest’opera si lascia incasellare e niente è organizzato per essere classificato: è letteratura libera di essere letteratura.
Se non te la senti di leggere questo libro in lingua originale perché le pagine sono davvero molte e la lettura è di per sé impegnativa per la struttura, il tipo di narrazione e il linguaggio usato, puoi sempre optare per la versione italiana di Adelphi.