“So much of the pain of loneliness is to do with concealment, with feeling compelled to hide vulnerability,
to tuck ugliness away, to cover up scars as if they are literally repulsive. But why hide?
What’s so shameful about wanting, about desire, about having failed to achieve satisfaction,
about experiencing unhappiness?”.“I’d always found straight society isolating and
potentially dangerous”.

Se dovessi descrivere in poche parole The Lonely City, direi che è un saggio sulla solitudine, pubblicato in Italia da Il Saggiatore col titolo “Città sola”. Si tratta di un saggio sulla solitudine intesa come loneliness e non come to be alone: sentirsi soli e non essere da soli perché momentaneamente senza compagnia.
Treccani definisce la solitudine come la “condizione, lo stato di chi è solo, come situazione passeggera o duratura” e anche come la “condizione di che vive solo, dal punto di vista materiale, affettivo”; il libro di Olivia Laing si inserisce esattamente nella fessura tra queste due definizioni, andando ad analizzare proprio lo stato di chi è solo e si sente solo, di chi fa dell’espressione artistica uno strumento per dare voce -in modo più o meno esplicito e consapevole- all’isolamento, al disagio e alla vulnerabilità. È assai probabile che tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo provato questa sensazione di smarrimento, di vuoto esistenziale, accompagnata dalla convinzione di non riuscire a connettersi con nessun essere umano, di essere un’isola in un mare di isole, senza contatti, senza scambi. A me è capitato durante i mesi vissuti a Madrid, la mia lonely city; non ho mai legato veramente con nessuna delle persone che ho conosciuto e spesso mi sono ritrovata a vagare sola per la città, a visitare mostre da sola e a non parlare con nessuno per interi fine settimana. E il problema è proprio qui, che stare da soli perché lo si vuole, perché se ne ha bisogno, è una cosa, e può risultare pure piacevole e spiritualmente nutriente, ma rendersi conto di non incrociare mai uno sguardo amico o un sorriso denso di calore solo perché le circostanze o il nostro modo di essere ed esporci sembrano apparentemente un ostacolo, è tutta un’altra storia e il passo verso la malinconia, la tristezza e il senso di inadeguatezza è brevissimo. Esattamente come me, anche Olivia Laing ha sperimentato la solitudine sulla sua pelle dopo essersi trasferita a New York inseguendo un amore che non era destinato a durare per sempre; esattamente come me, Olivia ha vagato sola per le strade della città, frenetica e luminosa, travolgente emblema del sogno americano e delle sue luci al neon, guardando nostalgica le coppie e i gruppi di amici, sentendosi nel posto sbagliato al momento sbagliato (o sbagliata nel posto giusto); esattamente come me, anche Olivia ha passato giorni interi senza proferire parola, senza uno scambio verbale con un altro essere umano, perdendo quasi le capacità dialettiche e il senso della socialità insito nel linguaggio stesso. E proprio da questa esperienza personalissima di solitudine parte l’idea di The Lonely City, in cui l’autrice ripercorre l’esperienza artistica e umana di alcune delle figure che hanno popolato nel corso dei decenni la scena newyorkese, tra cui spiccano i nomi di Andy Wharol e David Wojnarowicz.
Laing ci offre una chiave di lettura completamente nuova e inizia la sua analisi non dalla ricerca della felicità, bensì dalla ricerca della solitudine, intesa come condizione intrinseca dell’esperienza umana, benzina che alimenta la spinta artistica del percorso degli uomini di cui ci parla.
La solitudine ci spaventa perché, in un certo senso, è una forma di assenza, perché ci isola dal gruppo e ci fa sentire diversi, perché senza gli altri, il nostro specchio, non sappiamo esistere. In alcuni casi nasce da un disagio, dall’insicurezza, dal sapere di non essere esattamente come vorremmo (o dovremmo) apparire agli occhi degli altri; in altri, è l’isolamento di chi vive ai margini di una società che non ha un posto prestabilito per lui, per la sua omosessualità, per il suo estro istrionico, per la sua incapacità di essere un comunicativo dall’allure vincente, per il suo aspetto emaciato e fragile; in altri ancora è figlia della piaga dell’AIDS, stigma per eccellenza degli anni ’80 e ’90, anni in cui AIDS faceva rima con “deviato”, “pervertito”, emarginato che non merita di morire sotto gli occhi di tutti (e qui, scusate la digressione, ma mi viene in mente Bellatín e il suo Salón de belleza con quella sorta di Lazaretto, rifugium peccatorum, mondo nel mondo, luogo non-luogo dove si rifugiano per morire coloro che ormai non avevano più nessun merito per stare nella società, per vivere (e morire) sotto la luce del sole, sotto gli occhi dell’umanità che avanza).
C’è questo e molto altro nel brulicante e solitario mondo culturale, personale, metropolitano e artistico riportato in vita da Laing. C’è l’animo glam della Factory, il vestito della festa di Wharol, crocevia continuo di vite e persone e immagini e opulenza, il posto dove essere per contare qualcosa, il nido costruito da Andy per non pensare, per non stare troppo tempo solo con sé stesso, e c’è una New York che cambia e si trasforma, si ripulisce scacciando via polvere e degrado. Ci sono le infanzie infelici, le morti solitarie, gli abusi e gli abissi dell’inquietudine e dell’irrequietudine, i pozzi neri della malattia mentale, paventata o latente. C’è la solidarietà di Laing, l’empatia con cui, in un tessuto urbano e umano organico e armonico, eterogeneo ma comunque compatto, l’autrice sa collegare le varie storie alla sua, sentendosi umanamente vicina al dolore di alcuni e provata dall’indifferenza di molti, anima sola tra anime sole, strette in un abbraccio che oltrepassa gli anni e i quartieri.
Il libro è il risultato di un brillante processo di ricerca e di un lungo e certosino lavoro di documentazione e di consultazioni di fonti più o meno facilmente reperibili; risulta, pertanto, impeccabile sia dal punto di vista della forma che dell’analisi del contenuto, misurata e calibrata, accorta e sostenuta. Per quanto riguarda la versione in lingua originale, sceglila pure se hai un inglese mediamente buono che va oltre “the cat is on the table”.