“Vengo da lontano… da una pesante ancestralità. Io che vengo dal dolore di vivere. E non lo voglio più. Voglio la vibrazione dell’allegro. Voglio l’esonero da Mozart. Ma voglio anche l’inconseguenza. Libertà? É il mio ultimo rifugio, mi sono costretta alla libertà e la sopporto non come un dono ma con eroismo: sono eroicamente libera. E voglio il fluire”.
“Perché è troppo crudele sapere che la vita è unica e che non abbiamo altra garanzia se non la fede nelle tenebre”.

Oggi sono qui per parlarti di “Acqua viva” di Sophie Lispector, pubblicato in Italia da Adelphi. Non l’ho letto in versione originale perché scritto in portoghese, che ho studiato soltanto come terza lingua durante il secondo anno della laurea triennale; ricordo molto poco e non riesco a seguire un libro intero (nemmeno a formulare una frase di senso compiuto vagamente articolata, se è per questo…). É rimasto in fondo alla mia lista Amazon per molto tempo, fino a che ho deciso che il suo momento era arrivato.
“Acqua viva” è un monologo interiore, in cui l’autrice, con una scrittura a tratti incalzante e a tratti sorniona, si rivolge ad un non meglio identificato “tu” e mette nero su bianco un ragionamento/non-ragionamento che ruota attorno al concetto di “istante”, fugace momento che chiamiamo “adesso” e “ora”.
Quello che la Lispector cerca di fare attraverso la scrittura è assai ambizioso. Ogni istante è fatto di particelle inafferrabili e sfuggevoli, mutevoli e mutanti, che non si possono in nessun modo imprigionare: ogni istante, ogni qui e ora, è per definizione intrinseca destinato a sciogliersi e liquefarsi in una frazione di secondo quasi completamente impercettibile: l’adesso diventa immediatamente e irrimediabilmente prima senza che traccia alcuna rimanga in noi del suo passaggio, del suo cambiamento di stato e identità. Quello della Lispector è sì un viaggio dentro sé stessa, ma lo è anche dentro il concetto stesso di tempo e dell’essere-essenza che ci costituisce, in un bisogno irrefrenabile di abbracciare il suo essere, di vedere pulsare ogni atomo, ogni istante di vita, di sentirsi e ritrovare l’energia primordiale. Il tutto attraverso un linguaggio estremamente raffinato, lirico, bello nella sua sublime perfezione: la parola ritorna alla sua dimensione primitiva, si riduce a suono, evocazione di altro al di fuori del suo significato primo, come se non solo la Lispector ma anche il linguaggio stesso dovesse uscire da sé e dalle sue principali funzioni comunicative chiarificatrici ed esplicite, per lasciar scorrere libera e fluida l’energia e frammentare l’unità corporea delle particelle che formano ogni singolo istante. È forte l’urgenza della Lispector di restaurare un legame atavico, puro e ancestrale, autenticamente libero da sovrastrutture, con la sua essenza e con il vibrante sbalzo energetico del mondo, originando un contatto duraturo e imperituro, ineffabile perché oltre la parola e il pensiero intesi como logos.
“Acqua viva” è un libro che sfugge alle categorie, che non si lascia definire, così come Sophie Lispector, che cerca sé stessa e contemporaneamente altro da sé per fuggire ai generi e ai dogmi, alla mera coscienza logica della vita, del reale e della morte. Il flusso della Lispector si struttura in un libro carico di poeticità e liricità, caratterizzato da una scrittura allusiva e introspettiva, che non si svela e non si esplicita mai mentre racconta il viaggio di un’anima verso la piena consapevolezza di sé in quanto essere vivente, ma, soprattutto, in quanto essere che vuole ricreare e ritrovare connessioni primordiali, una visione primitiva e non artefatta della vita stessa. Non c’è controllo della ratio sulle parole e sui pensieri; la scrittura dell’autrice ha qualcosa di automatico anche se, a differenza della vera scrittura automatica di matrice surrealista, la Lispector ci trascina in un automatismo che affonda consapevolmente nell’irrazionale, che controlla e guida, piuttosto che annientare, la ragione stessa. È, la sua, una scrittura femminile, lieve ed elegante, carica di rimandi ed evocazioni, densa e tellurica, evasiva e indomita, fiera e ferita; è caos primordiale, vita in potenza e in divenire. “La parola pesca quel che non è parola”: la scrittura porta alla luce anfratti nascosti, angoli di anima rimasti bui, stati d’animo trattenuti e identità domate. È una scrittura sensuale nella sua piena e (in)espressa vitalità.
Parlavamo prima di un “tu” a cui la Lispector si rivolge nel suo fluire di parole e immagini e concetti e simboli, un amato presente eppure assente, assente eppure presente; l’autrice è dentro un processo di riappropriazione dell’identità segreta e primordiale che non è un atto collettivo, ma essenzialmente solitario, una presa di potere su sé stessa, il proprio corpo e la propria identità recondita. La storia finita con questo “tu” ha lasciato dei segni di dolore, ma sembrano proprio essere questi segni a innescare questa ricerca dell’autonomia dell’identità che si riafferma nella sua indipendenza, seguace solo dell’infinito atavico, del tutto che sostiene il mondo, figlia della non-affermazione e dell’indefinito. “Tu” non è certo protagonista qui: tra le pagine è la figura femminile che risorge e rinasce come ogni Fenice che si rispetti, mentre rivendica il bisogno di un riavvicinamento alla parte più indomita e indomabile del proprio IO, che ora, libera da vincoli sentimentali ed esistenziali, scorre senza dighe come acqua viva, fluttua leggera ed eterea come una medusa (“aqua viva” in portoghese significa anche “medusa”). La Lispector riflette sul senso del tempo e l’esistenza intesa come venuta al mondo, passaggio da IT (indefinito e infinito) a LUI o Lei (definito e finito), dalla non definizione alla definizione. Quello che l’autrice prova a fare qui è ritornare dove tutto è iniziato per ritrovare l’interezza perduta. La scrittura è tortuosa, disorganica, lo sguardo dell’io narrante è fisso verso l’interno. Tornano e ritornano, come un’onda, temi come la morte, la natura come luogo ristoratore e gli animali, la vita come momento-adesso, attimo fuggente, generarsi e rigenerarsi continuo, che la Lispector prova disperatamente ed energicamente ad afferrare e bloccare in un’istantanea perpetua ma non imperitura.
Come approcciare questo libro? Non lo so, non ho risposte definitive. Posso, però, dirti che se il tuo intento è quello di capirlo fino in fondo e sviscerarlo meticolosamente, ti ritroverai fra le mani una scrittura pesante e contorta; leggilo, quindi, lasciando che sia lui stesso a trasportarti dentro e al di fuori di te e dell’autrice stessa. Non aspettarti un libro da birra ed ombrellone, siamo di fronte ad una scrittura implicita, a tratti astratta ed artistica, che avanza accumulando e sequenziando immagini più o meno oniriche, mai immediatamente decifrabili e decodificabili secondo parametri standard facilmente riconoscibili. Personalmente, ho faticato un pochino ad arrivare alla fine: apprezzo gli autori che sanno riflettere sulla vita e che riescono a trascriverla densamente e intensamente nello loro pagine, ma qui, in alcuni momenti, ho avuto l’impressione che fossimo parecchio vicini al manierismo nudo e crudo, complesso e pretenzioso sia nella forma che nella sostanza. La scrittura è aggrovigliata e mai distesa, tesa e protesa, una baraonda di sentimenti e sensazioni, di spasmi e aneliti. Non è un libro per tutti, ma non perché sia solo un libro per intellettuali chic; semplicemente, è una lettura che potrebbe non piacere a chi ama particolarmente le storie, i personaggi strutturati, le trame ben sviluppate e articolate, le strutture solide e coese. Qui nulla è solido, nulla è coeso, tutto (la parola e la struttura comprese) si frammenta e si sfalda e ho avuto un po’ la sensazione che dopo le prime pagine il libro abbia già esaurito la sua potenza espressiva e che, poi, non faccia altro che ripetersi. In conclusione, vorrei spezzare una lancia a favore del traduttore, il cui lavoro è veramente lodevole, poichè è riuscito a trasporre in una lingua diversa il mondo frammentario e contorto, finemente concettuale, linguisticamente sopraffino, della Lispector.