“Y cuál era esa verdad. Cuál va a ser.
Pues que había hecho daño y había matado.
¿Para qué?
Y la respuesta le llenaba de amargura: para nada.
Después de tanta sangre, ni socialismo,
ni independencia, ni pollas en vinagre.
Abrigaba la firme convicción
de haber sido víctima de una estafa”.“A mí me mataron hace mucho tiempo.
Desde entonces no he sido más que un fantasma.
Como mucho, media persona.
Y eso porque algo le tiene que quedar a una
donde sentir el daño que le han hecho y
porque, además, con dos hijos,
una aguanta de pie como sea”.

Ho iniziato a leggere “Patria” (pubblicato in lingua originale da MaxiTusquets Editores e in Italia da Guanda) con la solita diffidenza con cui affronto i best-seller e dopo averlo finito ho pensato quello che penso sempre quando finisco un best-seller: “sì, ok, ma…”. E, capiscimi, non è che “Patria” non sia un super-romanzo perfetto nella struttura narrativa o nella costruzione della psicologia dei personaggi, ma libri di questo genere mi lasciano sempre una certa insoddisfazione addosso. Ora, mi sembra evidente che il problema sia mio (così come è un mio problema considerare noiosi i libri di Virgina Wolf e di una certa letteratura anglosassone, che non riesco mai a finire e mollo, vinta e arresa, sventolando bandiera bianca e che ho smesso pure di comprare), per cui cercherò di fornirti comunque un resoconto dettagliato e il più possibile imparziale su questo romanzo, premiato nel 2016 dalla critica letteraria, vincitore di tanti altri premi e premiato pure dalle vendite qui e lì e ovunque.
Paesi Baschi. ETA. Famiglia. Queste tre parole potrebbero costituire la mappa concettuale attorno alla quale si sviluppa il fulcro narrativo di questo imponente romanzo di 642 pagine. Il contesto sociale è quello tipico di ogni piccolo pueblo di provincia: tutti sanno tutto di tutti, tutti si conoscono, tutti conducono una vita beata e tranquilla, lontana dai livori e dalle frenesie cittadine. Joxian e el Txato (si legge come “ciao”) sono amici di vecchia data, così come le loro rispettive mogli, Miren e Bittori. Joxian e Miren hanno tre figli, el Txato e Bittori due; i mariti condividono bevute e mangiate al bar del paese e giri in bici la domenica mattina, le mogli, invece, chiacchiere, confidenze, la messa della domenica e le merende del sabato pomeriggio. Joxian fa l’operaio, è umile nell’indole e nel temperamento -un uomo di poche parole, di quelli che sembrano non capire e non vedere niente e poi, invece, scopri che hanno capito e visto molto più di quanto diano ad intendere-, mentre el Txato, grazie al suo fiuto per gli affari e alla costante dedizione al suo lavoro, riesce a mettere in piedi un’azienda di trasporti che sembra andare piuttosto bene. I rispettivi figli si frequentano, tutti in paese sanno della loro amicizia. Attorno alle due coppie, nelle quali sono le donne a costituire il muro portante, ci sono i figli che crescono, la vita che va solo avanti e indietro mai e la storia sociale e politica della Comunità Autonoma in cui vivono. Ed è proprio a causa del mutare del contesto sociale e dell’inasprirsi del terrorismo basco che la situazione precipita fino a inclinarsi drasticamente: el Txato inizia a ricevere richieste di denaro e minacce sempre più invadenti e dirette dall’ETA, l’organizzazione terroristica che fino al 2011, anno della resa definitiva dopo decenni di lotta armata, ha tenuto in scacco la vita dei baschi e scosso l’opinione pubblica internazionale, e nella quale milita con giovanile fervore Joxe Mari, il figlio maggiore di Joxian e Miren. Da lì le cose cambiano e le strade delle due famiglie si dividono; nessuno in paese rivolge più la parola né a Bittori né a el Txato e così fanno anche Miren e Joxian, la prima per testardo e cieco orgoglio materno, il secondo per codardia e per non infiammare ulteriormente l’animo belligerante e dominante della moglie. L’amicizia muore lì, si arena sulla spiaggia del nazionalismo, dell’omertà e dell’egoismo per cui il mio bene non è sacrificabile e viene prima di quello di tutti gli altri, anche di quello degli amici di una vita. Bittori e El Txato vivono da reclusi, ma sono entrambi irremovibili: non lasceranno il loro pueblo e la loro casa, non stravolgeranno la loro vita per quattro ragazzini fanatici e ignoranti. Quello che non sanno, però, è che il destino de el Txato e di tutta la sua famiglia è già scritto e quando el Txato verrà ammazzato poco lontano da casa sua, Bittori, a testa alta, fiera combattente, senza mai mostrare un segno di cedimento né al dolore né alla vergogna di essere la moglie di una vittima in una terra in cui se l’ETA uccide, beh, forse una ragione ce l’ha, non smetterà mai di rivendicare più o meno silenziosamente giustizia e pace per sé stessa, la sua famiglia e il marito defunto. Dal canto suo Miren, madre di un figlio militante, madre fiera di un figlio militante ora in carcere a pagare per i delitti commessi in nome della patria libera, del patriottismo che vince il nazionalismo, del sacrificio personale per la causa comune, innalza muri sempre più alti e spessi tra lei e il mondo esterno, tra lei e l’emotività, dimenticando cosa significhi provare empatia, dimenticando che soffrire non è segno di debolezza, dimenticando che non ci sono mai solo vinti o solo vincitori e che schierarsi solo da una parte è fare proprio il gioco di chi fomenta l’odio e l’intolleranza e li usa come armi per tenere in scacco tutta una comunità, per assicurarsi appoggio e ammirazione incondizionata. Né Bittori né Miren sanno cosa significhi scendere a compromessi, sono dure e compatte, rigide e ruvide, leonesse ferite che mai e poi mai permetterebbero al mondo di additarle come tali. E, così, ognuna chiusa nella propria testardaggine cambiano ed invecchiano, evitandosi, odiandosi, ma, forse, seppure nell’odio, non smettendo mai di cercarsi. I componenti delle due famiglie si chiudono tutti nel dolore e nella rabbia e li affrontano chi con coraggio, chi prendendone le distanze (anche fisiche), chi trasformando la lotta patriottica in qualcosa dai toni più personali, ma tutti con la convinzione che il passato pesi più del presente stesso, tutti schiacciati da una storia sociale che è diventata anche e soprattutto storia personale e famigliare.
Fernando Aramburu ripercorre, in un libro denso di sentimenti, la storia di due famiglie segnate dall’ETA e la storia della Comunità Basca stessa, riportando alla luce il clima sociale e politico di quegli anni dominati dal terrore, disturbati dal frastuono delle bombe, macchiati dal sangue di chi è caduto a terra e non è ritornato a casa mai più, sostenuti dalla convinzione che per salvare Euskal Herria bisognasse combattere e far morire, se necessario e giusto. E mentre ci restituisce l’atmosfera di quegli anni, non prende mai le parti né del terrorista (anche lui, in un certo senso,vittima sacrificale di un sistema rigidamente costruito, di un’élite di pseudo-combattenti che manda al fronte i più “deboli” psicologicamente ed intellettualmente per non doversi sporcare né mani né coscienza) né della vittima e costruisce sapientemente la sua narrazione intrecciando presente e passato per raccontare uno stesso fatto da più punti di vista, per farci ascoltare tutte le voci di questo romanzo corale, per permettere anche a noi lettori di entrare nella storia e capire, forse, la Storia di queste terre martoriate e le circostanze che l’hanno resa possibile. I fanatismi non sono mai la risposta giusta né il mezzo più efficace per colpire e lasciare il segno o ottenere i risultati sperati, ma nella storia di Aramburu anche Joxe Mari, il terrorista che conosciamo più da vicino, non è sempre e solo carnefice e anche a lui viene data la possibilità di raccontare e far conoscere la sua parte di storia: servono i tasselli di tutti i personaggi per concludere il puzzle, così come nella vita dovremmo imparare a leggere una vicenda da prospettive prima di condannare e assolvere a priori, come fossimo tutti incarnazioni del Dio supremo. E alla fine ogni personaggio farà i conti col proprio legame con la Patria, con Euskal Herria e le sue radici così ataviche e misteriose, con questa terra che può dare tanto ma che, cinicamente, sa anche togliere tanto e strappare figli alle proprie madri, padri ai propri figli, mariti alle proprie mogli. Per salvarsi da questo vortice rimangono poche soluzioni: la fuga, la rassegnata accettazione di uno status quo o l’adesione cieca e fanatica ad un credo che sembra fare della politica una scusa per generare e perpetrare violenza. Fino a dove siamo disposti a spingerci per amore della nostra patria? Cosa è la patria e quali sono i suoi confini? A cosa siamo disposti a rinunciare per salvare le nostre radici, per non doverle recidere? Questi mi sono sembrati alcuni dei quesiti che Aramburu si pone e che lascia argomentare ai suoi stessi personaggi attraverso i loro pensieri, le loro decisioni, le loro parole e i loro personalissimi gesti. In questo romanzo una cosa è certa: l’autore tiene ben salde le redini della storia ma ne rimane fuori, muove i suoi personaggi con delicatezza e mai, davvero mai, con l’intento di prevaricarli o influenzarne il percorso intromettendosi.
I personaggi sono, a mio parere, la parte migliore di tutta l’opera. Sembrano così umanamente possibili che ci sembra davvero di vederli muoversi in una realtà che fittizia non è; sono persone, più che personaggi, e ognuno di loro ha pregi, difetti, debolezze, chiaroscuri, incertezze, sogni e passioni infranti, delusioni con cui fare i conti, umane pecche e imperfezioni. Ripercorrendo negli anni la storia personale di ogni singolo personaggio, le discese e le risalite, Aramburu ci (tras)porta in un universo completo, nel quale noi lettori entriamo in punta di piedi, ci mettiamo nell’angolo più remoto di ogni stanza e sussurriamo un delicato “fate come se io non ci fossi”. Tuttavia, credo che nemmeno lui sia riuscito a sfuggire ai clichés e mi pare che alcuni tratti di certi personaggi siano calcati e caricati a tal punto da farli sembrare delle macchiette facilmente incasellabili e prevedibili; penso, ad esempio, alle stesse Miren e Bittori, donne forti, pratiche, orgogliose e sbrigative, entrambe devote alla famiglia, entrambe pronte a lamentarsi di una qualche mancanza dei mariti -della serie “ah, gli uomini…”- dei figli che non le capiscono (e che loro stesse faticano a capire e a conoscere), donne a cui è sempre meglio darla vinta per evitare rogne, e mi sembrano qualcosa di già visto, di preconfezionato. Altrettanto banale, mille volte sviscerata da cinema e letteratura, è l’idea delle amiche/nemiche, così come il susseguirsi eccessivamente lineare degli eventi in alcune parti della storia, in cui da A si va Z con un non indifferente grado di prevedibilità; infatti, già dopo qualche pagina si riesce ad intuire dove e come finirà la narrazione e le scelte di alcuni personaggi sono assai scontate. Detto ciò, soprattutto verso la parte finale del libro (forse eccessivamente lungo, visto che in alcuni punti la narrazione appare sbiadita e “allungata”), l’autore ci regala momenti di bittersweet simphony e lascia sulla pagina riflessioni sulla vita, sul tempo che passa, sull’essere umano che inevitabilmente dovrà fare i conti con quello che gli è accaduto nel corso degli anni trascorsi e se non vincere, almeno accontentarsi di un onesto win-win.
Mi è capitato di leggere su Google delle pagine tradotte in italiano e le ho trovate decisamente meno vivaci (anche lessicalmente), più scialbe rispetto alle pagine originali: ho avuto come l’impressione che la voce che l’autore dà al suo racconto sia stata in un certo senso appiattita e controllata. Per cui, se ne hai la possibilità, non farti scappare la versione originale, che tanto lo stile e la lingua sono lineari, canonici, informali e veloci e non destano particolari problemi di comprensione. Ah, alla fine del libro un utile glossario spiega e traduce i termini della lingua euskera che appaiono disseminati per tutta la narrazione e con i quali è molto interessante entrare in confidenza.