“En todo niño hay en potencia un hombre, un ser malvado.
El hombre nace malo y la sociedad lo empeora.
Por amor a la naturaleza, por equilibrio ecológico,
para salvar los vastos mares hay que acabar con esta plaga”.“Qué manía tan mesquina ésta de los mortales de aferrarse
como garrapatas a la vida,
a contracorriente de nuestra profunda esencia”.

Desbarrancadero in spagnolo significa “dirupo”, “precipizio”. E quello di cui Fernando Vallejo ci parla in questo testo è proprio l’abisso più nero e profondo, quello della morte, su cui tutti siamo costretti ad affacciarci, miseramente condannati ad essere testimoni impotenti della caduta altrui, a fare i conti con il peso dell’assenza, col dolore della perdita, con gli spettri e i fantasmi che ritornano dall’abisso a ricordarci un tempo che fu e di cui siamo rimasti gli unici simulacri viventi. In questo libro autobiografico Vallejo ci mette brutalmente e senza fronzoli davanti a questa realtà, ci costringe a guardare quell’abisso da cui vorremmo solo fuggire e ci obbliga a fare i conti con la nostra patetica condizione umana. Mentre dà spessore e voce alla nostra angoscia, con freddezza e crudele lucidità ci ricorda che siamo esseri finiti, umani e non supereroi, mortali e non divinità, ineluttabilmente sospesi tra Vita e Morte, passato e presente, il ricordo e quello che resta davvero di chi vivo non è più, di chi c’era e ora è solo una croce in più nel cimitero del nostro cuore. Vallejo compone un’autobiografia anomala e spietata, crudele e scarna nella sua brutale sincerità, così radicalmente scorretta da risultare quasi irritante, tremendamente viva proprio perché coraggiosa, impietosamente vera.
A dare il via al racconto è l’imminente morte del fratello Darío, malato terminale di AIDS – la malattia innominabile, stigma sociale ancora prima che sofferenza del corpo-, che ha scelto di tornare nella casa natale per vivere l’ultima fase della sua vita, quella dell’attesa della caduta definitiva dal desbarrancadero. Vallejo torna in Colombia, dal Messico dove vive, proprio per stare accanto al fratello, dando inizio a un dipanarsi senza sosta di rimembranze, riflessioni, feroci critiche al sistema e ai suoi pilastri -sacri o profani che siano-, che Vallejo stesso intreccia e ingarbuglia in una narrazione sgangherata, che segue e poi perde e poi riprende il suo filo conduttore, mettendo in scena un flusso di coscienza che divaga dal presente al passato e dal passato al presente, raccontando e raccontandosi con rabbia, disillusione, disincanto, malinconia ed irrequietudine. Lo stadio terminale del fratello riporta prepotentemente il nostro autore proprio lì, dove un anno prima era tornato per accompagnare il padre (l’amato padre) nel suo viaggio verso l’abisso più nero e cupo, in un costante e incerto divenire tra Vita e Morte, qui e lì, che mai come in questa storia si intrecciano, si mescolano e, finalmente, si confondono. Dialoga con la Morte, Vallejo, più che con la Vita; la ritrova vagare per le stanze della casa e le rivolge parole sfidanti e strafottenti, nelle quali non scorgiamo alcuna traccia del timore reverenziale e quasi scaramantico che la nera ed inquietante presenza produce in chi, come l’uomo stesso, sa di non poterle fuggire. Fernando Vallejo, angelo custode e mortifero allo stesso tempo, la schernisce, le parla da pari, la conosce e sa come rapportarsi a lei.
Più che come un racconto lineare fine a sé stesso, il libro si presenta come una riflessione angosciata, rabbiosa, rassegnata, straziante e disillusa sul percorso di ogni essere umano. Vivere significa essere un passo sempre più vicini alla morte. Vallejo, dall’alto delle sue estreme posizioni anticlericali, laiche al punto tale da valicare i confini della più becera e facile blasfemia, e della sua visione antinatalista, dimostra senza troppi fronzoli di non avere nessuna fiducia nell’essere umano, essere infimo e malvagio, incapace di redimersi e salvarsi da sé stesso e dal meccanismo in cui involontariamente si ritrova invischiato una volta messo al mondo. Non ci sono confini netti, né tra Vita e Morte, né tra bene e male, e Vallejo stesso ci appare avvolto in una nebbia esistenziale che ne sfuma i contorni: uomo colto, ma capace di azioni e condotte poco ortodosse, sempre in bilico tra chiaro e scuro, volere e potere, incapace di accettare e accettarsi, in lotta con sé stesso e un sistema in cui ognuno di noi è come un topo in trappola, già condannato ancor prima di capire veramente cosa significhi “condanna”.
In questo narrare furibondo Vallejo deposita tutta una serie di riflessioni sulla Vita e la Morte, sul senso stesso della Vita come Morte stessa: dove inizia l’una e finisce l’altra? Cosa rimane di chi muore se non dei ricordi nei cuori di chi li ha amati? E di noi, piccoli esseri spregevoli, cosa rimane, se ogni nostro caro che se ne va si porta via per sempre dei ricordi che non possiamo più condividere, o che perdiamo definitivamente? Non so se Vallejo ci dia davvero delle risposte, certo è che ci lascia con molti spunti di riflessione, atterriti perché costretti a confrontarci con la nostra pochezza, a vedere il filo spinato che ci sta attorno mentre ci illudiamo di poter fare qualsiasi cosa, di poter cambiare, di poter semplicemente vivere in libertà.
Non ha più nessun legame con la sua patria natale, con la casa di famiglia e apparentemente nemmeno con il sé stesso del presente; in alcuni passaggi, infatti, si ha quasi l’impressione che la certezza dell’avvicinarsi della morte fisica del fratello segni la sua stessa morte intima e spirituale, la perdita definitiva dell’ultimo legame profondo e autentico con la vita rimastogli, la vera e propria rassegnazione dolorosa all’evidenza. E allora fugge, Vallejo, esce ancora da quella casa, da una Colombia anch’essa sull’orlo del precipizio, sgangherata e in fase di collasso, dominata dalle leggi sporche del narcotraffico, e si rifugia nei ricordi sfumati del passato, delle esperienze personali condivise con Darío, omossessuale come lui. E non è un dettaglio da poco, questo dell’omosessualità, se consideriamo che la cultura queer irrompe nella letteratura sudamericana e diventa fonte di stravolgimento, riassestamento su valori altri da quelli dominanti, più istintivi e mutevoli, figli di una morale distorta proprio perché altra, libera e indomita.
Solo nel poetico finale scorgiamo un’emozione vera pulsare tra le righe, umana nella sua debolezza, ma proprio perché umana profondamente commovente. E, finalmente, in queste ultime parole ci sentiamo vicini a Vallejo, vediamo la sua sofferenza e la sentiamo anche nostra; vediamo il suo spaesamento e lo sentiamo anche nel nostro cuore, percepiamo vivido il suo nodo alla gola mentre il suo smarrimento acquisisce potenza; viviamo con lui il senso di impotenza di fronte all’assenza e al vuoto, alla perdita definitiva e alla nostra intrinseca solitudine, mentre realizziamo una volta per tutte che il passato è passato e non gli apparteniamo più e che chi non c’è più, non c’è più sul serio. La morte di Darío smuove il lato più umano e meno cinico nell’animo rassegnato e turbato del fratello maggiore: si spezza l’ultimo legame con la vita, con una Colombia che fu, con delle emozioni che sono state spazzate via furiosamente dal disincanto, ma che allo stesso tempo, in quei pochi istanti, sono più vivide che mai e bruciano prima di spegnersi definitivamente per riaccendersi solo tra un ricordo e l’altro, tra una lacrima e l’altra di fragile dolore.
Nella casa colombiana Vallejo ritrova anche La Loca, ossia la madre, rimasta a vivere lì assieme all’ultimo dei venticinque figli avuti dal marito. Nelle parole dell’io narrante madre e figlio si muovono tra le mura della casa come presenze solitarie, indisturbate ma disturbanti, sfuggenti ma non per questo innocue, all’interno di una casa che un tempo è stata dimora di ben ventisette persone e che ora ci appare quasi immateriale nella sua essenza fragile e decadente, tetra e fredda nei suoi scaffali vuoti, nelle sue stanze piccole e spoglie, luogo dove non ci si incontra più per celebrare la Vita (se mai davvero si è celebrata), ma per aspettare la Morte.
Vallejo si relaziona a La Loca con disprezzo e rancore crescenti, dipingendola come la causa prima dei suoi dolori, come colei che infondendo e generando vita condanna immediatamente anche all’abisso dell’eterno riposo, togliendo all’eternità per accrescere un universo di morti viventi (o sarebbe meglio dire di vivi morenti?). Sembra non avere regole, La Loca, chiusa in un mondo dominato da caos e disordine, compulsivamente impegnata a dare la vita ma troppo ingenua per rendersi conto della signora in nero che avanza. Non scorgiamo tenerezza né accoglienza materna nel suo aggirarsi sbadato e superficiale per una casa che non abita più e che non riempie più di vita, come una presenza ormai parte di un (dis)equilibro che ha il sapore dell’immutabilità, del dentro da cui nessuno esce e in cui nessuno entra, di un mondo nel mondo. La Loca vive in un presente perenne, rifugiata nella sua indifferente solitudine perché convinta, forse, di ripararsi così dal dolore e dalla sofferenza, dalla perdita e le sue ombre, anche -e soprattutto- ora che un altro dei suoi figli sta per cadere dal dirupo, ora che è rimasta più sola che mai. Sembra sempre non esserci e invece c’è, sembra sempre eludere ed invece si ha l’impressione che, nonostante la sua assente e distratta presenza, tutto veda, come un Balzac qualunque che dall’alto osserva i movimenti dei suoi burattini, come Dio, che tutto sa e tutto conosce pur senza lasciarsi coinvolgere.
La scrittura di Vallejo è complessa, densa e tagliente come i suoi contenuti, cruda e amara come la realtà dell’esistenza umana; è magistrale il lavoro sulla lingua, così come la sua capacità di mescolare differenti registri linguistici. Non è un libro immediato, nemmeno da un punto di vista meramente linguistico; te lo consiglio, dunque, solo se hai una certa famigliarità con la lingua spagnola e le sue varianti, mutevoli e imprevedibili come la stessa condizione umana. Se ti piacciono le letture lineari e piene di speranza, lascia perdere, qui c’è ben poca joie de vivre. Leggilo, invece, se i punti di vista diversi dal tuo non ti spaventano, se hai voglia di provare a conoscere una letteratura latino-americana diversa dai soliti grandi nomi e dai loro universi magici e densi, popolati da infinite possibilità e sfumature.
Ah, il libro è facilmente reperibile online ed è pubblicato da Debolsillo Editorial. Non vi è traccia, invece, di un’edizione in lingua italiana.